Immaginiamo per un momento di essere a bordo della nostra auto quando veniamo fermati ad un posto di blocco da parte delle forze dell’ordine.In questo caso, sorprendendoci mentre siamo senza cintura di sicurezza e in procinto di elevarci una contravvenzione per mancato rispetto del Codice della strada, proferiamo le seguenti parole: «se mi fai la contravvenzione giuro che te la faccio pagare, chiamo il mio avvocato e ti querelo».
Orbene, questa espressione può integrare gli estremi del reato di cui all’articolo 336 c.p. “Violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale”?
Secondo il Tribunale di merito e la Corte d’appello di Cagliari, la locuzione utilizzata dal conducente integrava gli estremi del delitto sopra accennato e lo si riteneva colpevole. La Suprema Corte, tuttavia, con una recentissima sentenza depositata il 15 maggio 2015, la n. 20320, si mostra di avviso contrario. La prospettazione di denunciare taluno all’autorità giudiziaria non costituisce di per sé minaccia né oltraggio né tantomeno diventa di contenuto oltraggioso quando essa rimanga nei limiti della protesta e in termini civili, benché risentiti (sent. 4826/1998). Altresì, non integra il delitto di cui all’art. 336 c.p., la reazione genericamente minatoria del privato, mera espressione di sentimenti ostili non accompagnati dalla prospettazione di un danno ingiusto, che sia sufficientemente concreta da risultare idonea a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali (sent. 6164/2011).
Nel caso di specie, la contestuale prospettazione di farla pagare, chiamare l’avvocato e di querelare il pubblico ufficiale, se questi avesse elevato la contravvenzione per il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza, manifesta una condotta reattiva di mera prospettazione di generiche conseguenze negative.
Nel concreto, considerando come si sono svolti i fatti, il ricorrente si sentiva vessato da continui, ripetuti e ingiustificati controlli da parte delle forze dell’ordine nei suoi confronti che lo stavano mettendo in cattiva luce nei confronti della popolazione locale. Nel caso de quo pertanto mancherebbe la volontà di coartare la condotta degli agenti delle forze dell’ordine.
Nel delitto in esame, il bene tutelato è costituito dall’interesse dello Stato al normale funzionamento e al prestigio della P.A. oltre a quello concernente la libertà morale e fisica dell’individuo. L’idoneità della minaccia per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri deve essere valutata ex ante tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto. Nella specie, si asseriva che il ricorrente, una volta proferite le parole oggetto di esame, avesse chiamato telefonicamente il proprio avvocato al quale manifestava l’intenzione di voler procedere alla denuncia.
Gli Ermellini, alla luce di quanto considerato, ritenendo che il fatto di reato non sussiste, accolgono il ricorso e annullano senza rinvio la sentenza impugnata.